I teatri d’Opera, o meglio le Fondazioni lirico sinfoniche, navigano in pessime acque e sono a serio rischio di chiusura, per colpa dei mai troppo deprecati tagli al fondo unico per lo spettacolo (FUS) e del generale disinteresse di chi ci amministra per lo spettacolo dal vivo.
Anche i teatri di prosa certo non ballano per la felicità, e perfino l’industria cinematografica segna il passo.
E chi se ne frega, diranno alcuni di voi, andate a lavorare.

Sembra, difatti, che sia una mentalità piuttosto diffusa quella che vuole che il mestiere di teatrante, in fondo, non sia un lavoro, ossia che il lavoro che “nobilita” l’uomo sia solo e unicamente, a conti fatti, quello con cui ci si sporca le mani e ci si spezza la schiena, oppure quello in cui si riempiono moduli e scartoffie: non a caso, quando alcuni politici locali e nazionali devono portare come esempio qualcosa di improvvisato e abborracciato, fanno spesso paragoni con il mondo dello spettacolo.

Ebbene, lasciate che vi racconti brevemente quello che c’è dietro la “punta dell’iceberg” che vedete su un palcoscenico, ossia la rappresentazione, semplificando il più possibile ed evitando, per amore di sintesi, di raccontarvi di ripensamenti progettuali e correzioni dell’ultimo momento.

Dunque, un direttore artistico decide di mettere in scena, poniamo, Don Carlo di Verdi; contatta un direttore d’orchestra, uno scenografo, un costumista, un regista e mette su due cast di cantanti, per coprire tutte le recite ed esser sicuro che, in caso di malattia, qualcuno salga sul palco a cantare.

Lo scenografo, il costumista e il regista lavorano per qualche mese in sinergia per inventarsi lo spettacolo, indi il costumista (che ha nozioni di disegno, di moda e di costume) prepara a mano libera una coserella come trecento bozzetti di costumi e li sottopone al laboratorio di sartoria dove le sarte teatrali fanno i cartamodelli, acquistano le stoffe, tagliano, cuciono e mettono insieme i loro bravi trecento costumi (tutti da provare in seguito sui singoli personaggi per verificare il lavoro fatto ed eventualmente rimetterli a misura).

I bozzetti vengono spediti ai laboratori di trucco, dove i truccatori cominciano a pensare come realizzare le intenzioni dello scenografo e quali materiali ordinare. Una copia dei bozzetti va anche al laboratorio di parruccheria, dove i parrucchieri cominciano a costruire, ciocca dopo ciocca, le parrucche dello spettacolo.

Nel frattempo lo scenografo (che di fatto ha nozioni di architettura) non solo disegna la scena ma prepara anche gli esecutivi, ovverosia i disegni tecnici che spieghino nel dettaglio ai laboratori di scenografia, al direttore tecnico e ai macchinisti come andrà montata la scena, avendo ovviamente cura che la scena si adatti alle dimensioni e alle esigenze del palcoscenico che la ospiterà.

I laboratori di scenotecnica cominciano a costruire le scene (gli scenotecnici sono di fatto dei carpentieri o dei fabbri specializzati) che, una volta costruite, vengono dipinte e decorate a mano dagli scenografi (di fatto dei pittori) per poi essere portate in teatro e scaricate dai macchinisti sulla scena, i quali macchinisti poi provvederanno ovviamente al montaggio.

Mentre succede tutto questo il light designer, coi suoi bravi esecutivi in mano, prepara un piano luci che si innesti alla perfezione nello spazio scenico e, con la sua squadra di elettricisti, monta i proiettori che serviranno allo spettacolo collegandoli a un mixer luci che sarà il protagonista di almeno una settantina di ore di prove.

Nei laboratori di attrezzeria invece gli attrezzisti costruiscono o vanno alla ricerca di tutto quello che serve a riempire la scena (vasi, lampade, poltrone… fossimo in una casa diremmo “il mobilio”) nonché ogni piccola cosa non sia compito della scenotecnica, ovvero (a titolo non esaustivo) bastoni da passeggio, pistole, spade, sciabole, orologi da tasca e da polso e via discorrendo.

I cantanti preparano il ruolo a casa dei loro pianisti ripassatori, usando lo spartito che gli è stato inviato dall’archivio musicale del teatro, mandano tutto a memoria e arrivano pronti alla prima prova, continuando a provare lo spettacolo per circa venticinque giorni a una media di cinque/otto ore al giorno.

Il direttore d’orchestra compie lo stesso percorso di studio memorizzando ogni entrata di ogni singolo strumento orchestrale e si lancia anche lui nello stesso meccanismo di prove, cui vanno aggiunte le letture dell’opera con l’orchestra e le prove con il coro. Il coro, da parte sua, avrà fatto una media di cinquanta ore di prove per arrivare pronto all’incontro col direttore d’orchestra e alle prove d’insieme. L’orchestra, idem.

Alla fine di ogni giornata lavorativa, il servizio di pulizia del teatro si prende cura degli ambienti vellutati che voi spettatori vedete e di quelli che non vedete, ossia tutta la zona dedicata agli artisti e alle maestranze.

Ogni giorno, per otto ore al giorno, è aperta una biglietteria con una media di tre addetti, la quale resta aperta anche la sera dello spettacolo. All’ingresso artisti, un team di portieri controlla giorno e notte gli ingressi e le uscite.

Si apre il teatro al pubblico e si materializzano: le maschere che accompagneranno gli spettatori in platea, la squadra di vigili del fuoco, le guardarobiere, i baristi della buvette, i camerieri, mentre i fonici registrano ogni singola recita per l’archivio musicale.

Dunque, riassumendo, intorno a uno spettacolo si muovono: direttore, regista, interpreti, scenografo, costumista, scenografi, scenotecnici, macchinisti, attrezzisti, fonici, servi di scena, light designer, elettricisti, sarti, truccatori, parrucchieri, baristi, maschere, servizi di pulizia, vigili del fuoco, portieri, bigliettai, cui aggiungiamo un direttore di scena, maestri al pianoforte, maestri di palcoscenico, registi assistenti, maestro del coro, orchestra, coro e ci carichiamo sopra ditte di falegnameria, di tessuti e di cosmetica per la fornitura dei materiali, ditte di trasporti, nonché tutta la parte amministrativa che fa orario d’ufficio e manda avanti la baracca, peraltro pagando le tasse sull’attività teatrale e sulla propria fino all’ultimo centesimo.

Ripetere la ricetta per otto/dieci titoli diversi l’anno.

Tutto questo per dire che trovo estremamente disinformato, se non totalmente imbecille, chi fa paragoni col mondo dello spettacolo quando vuole parlare di qualcosa di raffazzonato.

E aggiungo: provateci ora a dire che “se chiude un teatro chi se ne frega” perché tutte, tutte le persone che ho descritto qui sopra (e forse anche altre che potrei aver tralasciato di menzionare per brevità, e me ne scuso) resterebbero senza lavoro da un giorno all’altro, e tutte le loro famiglie senza un sostegno.

Provateci ora a dire che la cultura non muove l’economia nazionale, e che è qualcosa di cui si può fare a meno. Provateci ora a dire che il nostro, in fondo, non è mica un lavoro.

E la prossima volta che sentirete la notizia di un teatro che chiude o che naviga in pessime acque, vi prego di avere per noi la stessa solidarietà sociale che avreste di fronte al licenziamento di cinquecento operai della Fiat.

Con una sola differenza: noialtri non abbiamo nemmeno la cassa integrazione.

Alfonso Antoniozzi (cantante lirico)

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