Le aule di studio al conservatorio erano piccole e stavano nei piani bassi della scuola. In quasi tutte c’era il pianoforte. Lì studiavano i ragazzi pendolari che  non avevano la possibilità di tornare a casa fra le lezioni della mattina e quelle del pomeriggio,  e poi quelli che non potevano acquistare uno strumento . Un pianoforte, all’epoca, costava quanto un’automobile e prima di poterlo acquistare le famiglie aspettavano che i ragazzi si assestassero in quello studio così particolare come la musica.
Nelle aule di studio nascevano amori perchè spesso si andava a studiare in compagnia. Il cantante con la pianista,l’arpista con il flautista  il trio d’archi, il quartetto. Si stava ore lì, e nonostante si dovessero fare dei turni, si temporeggiava anche quando lo studio finiva. Si mangiava un panino, si chiacchierava. Le porte avevano una sorta di spioncino in vetro da cui si poteva vedere da chi era occupata l’aula.
Noi cantanti amavamo particolarmente queste aule perchè potevamo sperimentare ogni cosa con la voce senza essere giudicati. Dopo gli studi, si tentava di cantare ciò che i nostri insegnanti non ci avrebbero mai assegnato. E allora il mezzosoprano cantava arie da soprano e viceversa.
Se poi il gruppetto di studio era consistente, si tentavano coretti che finivano per essere imitazioni di colonne sonore pubblicitarie. La si finiva a ridere e quasi sempre senza voce.  Ricordo che un giorno, dopo esserci tirate il collo alla ricerca del MI benolle tenuto, bussava alla porta una insegnante che non ci conosceva: “scusate, ragazze, mi auguro per voi che non siate delle cantanti   perchè quste cose, sappiatelo, vi potrebbero distruggere la voce per sempre”.
La signora aveva ragione, ma per fortuna la voce c’è ancora e da allora sono passti quasi quarant’anni.

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