Don Raffaè, celebre brano di Fabrizio De Andrè in cui il grande cantautore genovese si cimenta nella canzone in dialetto napoletano (anche con una bella resa dal punto di vista musicale) narra – romanzandola – la vita da detenuto del tristemente noto boss della Nuova camorra organizzata Raffaele Cutolo. E al tempo stesso denuncia lo stato di abbandono delle carceri italiane.
«Io mi chiamo Pasquale Cafiero e son brigadiero del carcere oinè». Inizia così Don Raffaè, una delle più note canzoni di Fabrizio De Andrè, scritta dal cantautore genovese con Massimo Bubola e Mauro Pagani per la musica. Inserita nell’album Le nuvole del 1990, non è, come è spesso ritenuto, l’unica canzone in cui De Andrè si esprime in napoletano. Anche il ritornello di Avventura a Durango (1978) traduzione di una canzone di Bob Dylan è in napoletano (l’originale era in spagnolo).
Don Raffaè ebbe da subito fortuna per il suo chiaro riferimento, nel nome e nel ruolo descritto (un potente boss in galera) a Raffaele Cutolo, capo della Nuova Camorra Organizzata. Narra della vita di un agente di polizia penitenziaria, denunciando la drammatica situazione delle carceri italiane, al cui interno gli equilibri sono spesso assoggettati al potere delle organizzazioni malavitose.
Il brigadiere Pasquale Cafiero chiede piaceri a don Raffaè: gli chiede il cappotto per un matrimonio, gli chiede un posto di lavoro per il fratello. E al centro di tutto c’è il caffè, l’ottimo caffè «Che sulo a Napule sanno fa» (che solo a Napoli sanno fare), verso chiaramente ripreso dal brano ‘O ccafè di Domenico Modugno.
FONTE
Di seguito una mia interpretazione del brano eseguita durante la presentazione del libro ispirato al sequesto di Fabrizio De Andrè scritto da Ignazio Salvatore Basile